Primavera

“Lettore, vogliamo parlarti chiaro”. Così si apriva, nel 1876, la prima edizione del Corsera. E noi, con molta umiltà, vogliamo pure parlarti chiaro, caro lettore, e ti vogliamo dire che ora è finalmente marzo, che ora è quasi primavera e che è, dunque, l’ora di risvegliarsi dalla stagione del letargo. Ripeto, con molta umiltà, anzi con molta umiltà in più di prima, ma anche, si spera e si crede da parte nostra, con tanta dedizione, con tanta determinazione, con tanta pazienza. Abbiamo idee nuove, siamo sia gli stessi sia gente nuova e vogliamo offrirti qualcosa di nuovo. Ci offriamo alla tua attenzione e al tuo giudizio. Possa tu apprezzare questo nostro nuovo sforzo. Caro lettore, Cave Canem ritorna, ritorna su Facebook e vuole stabilirsi, ma sempre dinamicamente, su Instagram, dove tanti fanno facili fortune e noi, invece, più che altro, vogliamo fare qualcosa di interessante, qualcosa di buono. E ora diciamo, quasi con un volo pindarico, che questa letargia vogliamo che cessi allo scadere del primo anno di Terza Repubblica. Era il 4 marzo 2018 quando il Movimento Cinque Stelle di Di Maio e La Lega di Salvini impartirono l’estrema unzione alla Seconda Repubblica, rispetto alla quale crediamo non ci siano tante nostalgie. Chi ti scrive, però, pensa che peggiore della Seconda Repubblica sia stata solo la Prima. Ma questo è un commento spassionato e personale che poco c’entra con quello che vogliamo dirti, perché, appunto, vogliamo parlarti del primo anno di Terza Repubblica. E perdona se adesso la narrazione e il discorso passano dal noi, usato alternativamente come collettivo di redazione e plurale maiestatis, alla prima persona di chi ti scrive. Sarebbe bello che tu lo considerassi un tentativo di umiltà. Allora dico che dieci anni fa, nel mio comunello, Campli, in provincia di Teramo, alle elezioni comunali si presentarono in quattro, di cui uno per la Lega Nord di Bossi e uno per la lista civica “Campli a Cinque Stelle”. Non avremmo dato (e non lo demmo) un soldo bucato ad alcuno dei due, e infatti presero il 4% insieme. Ora, in parte trasformati, quei due partiti, passati di vittoria in vittoria, governano il Paese insieme. Uso questo aneddoto per darti un po’ il quadro della situazione e di come essa si sia evoluta. Poi, già tra il 4 marzo e il 1° giugno del giuramento grillo-leghista, c’è da dire che il Movimento di Beppe e del compianto Gianroberto ha perso le regionali del Molise e poi quelle del Friuli-Venezia Giulia, a vantaggio del centrodestra tradizionale in Molise (ma voci molisane mi dicono che la situazione è un po’ più complessa) e del nuovo centrodestra a trazione leghista in Friuli-Venezia Giulia. Nelle settimane successive, eletti pure, e forse anche prima, i presidenti delle Camere (il grillino di sinistra Fico e la berlusconiana di ferro Casellati), con tanti patemi e un solo contratto di governo (che voci tecniche mi dicono sia innominato, atipico, assente nel codice civile), alla fine, anche dopo un litigio con Sergio sul ruolo di Savona (poi capite deminutus da potenziale superministro economico-finanziario ad attuale ministro senza portafoglio degli Affari europei), al Quirinale hanno pure giurato il giorno prima della festa della Repubblica. Quindi, in forza di quel contratto di governo, hanno cominciato a governare, tra decreti “dignità”, redditi di cittadinanza riveduti e corretti e quote cento, ma senza flat tax, se non in una versione molto edulcorata e parcellizzata. Poi sono accaduti pure alcuni fatti che hanno richiamato la responsabilità extracontrattuale: le navi di migranti bloccate fuori dai porti, i decreti sicurezza, le TAV, la nomina del capo politico della RAI, le autorizzazioni a procedere contro Salvini volute dal Tribunale dei Ministri e i voti sul Blog delle Stelle annessi e connessi. Per non parlare delle prossime nomine (Savona alla CONSOB? e chi prenderà il posto dell’uscente Boeri all’INPS?). Nel frattempo, nei primi due mesi del 2019, la bolla grillina sembra essersi sgonfiata, e pure di molto: confinati ai risultati deflattivi del 2014, i grillini di Marcozzi sono rimasti al palo alle regionali abruzzesi, quando il centrodestra dall’anima leghista ha vinto con il non abruzzese (spero che lo diventi almeno d’adozione e/o d’elezione) Marsilio, primo governatore di Fratelli d’Italia nel Paese. In Sardegna, proprio l’altra domenica, la Lega ha avuto un altro risultato notevole: l’azionista sardo Solinas è diventato governatore, quindi lascerà il seggio al Parlamento, dove siede tra i banchi della Lega salviniana. I Cinque Stelle, che cinque anni fa non riuscirono a scegliere candidati e liste, hanno racimolato meno del 10%.

In tutto questo, non c’è stato mai il bisogno di nominare il prof. Conte, Presidente del Consiglio.

Buone cose, caro lettore, è primavera!

Federico GARGANO

Immagine: Allegoria degli Effetti del Buon Governo in Città (1338-1339), Parete di destra della Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena

Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior~ Quella di Giovanni Legnini è davvero una sconfitta?

Federico Ioannoni Fiore per Cave Canem

Questo è il mio editoriale per il giornale online Cave Canem con il quale mi propongo di avviare un dibattito incentrato non tanto sui programmi che sono stati presentati quanto sull’impatto dei numeri finali (ahimè, al giorno d’oggi, quelli contano).
Non volendo entrare nel merito delle proposte mi sono limitato ad analizzare la figura di Giovanni Legnini, sconfitto a testa alta.
Presto sul giornale ulteriori commenti ed osservazioni sugli altri protagonisti di quella che è stata una campagna elettorale quantomeno accesa e che speriamo abbia formato un consiglio regionale produttivo ed efficiente, ai cui componenti va il mio e nostro migliore augurio di buon lavoro.

Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior~ Quella di Giovanni Legnini è davvero una sconfitta?

Da oggi la nostra terra torna ad esser amministrata dal centrodestra e da un presidente che non ha neanche avuto la possibilità di esercitare il suo dovere civico: votare.
Eppure…
Eppure Legnini si è reso senza dubbio protagonista.
Correndo autonomamente, libero dalle strigliate dei big nazionali.
Focalizzandosi su problemi territoriali, ignorando saggiamente la becera propaganda che permea il dibattito nazionale.
Senza pretendere di parlare ai cittadini, volendo discutere INSIEME a loro.
Trattando argomenti tabù, vedasi la sanità pubblica, anche con il rischio di rendersi preda: riconoscere i limiti del proprio operato è sintomo di propensione al miglioramento, non di debolezza.
Non si vuole sovvertire il risultato come si è soliti fare nelle elezioni italiane: non tutti vincono, il centrosinistra ha perso.
Eppure…
Eppure spero che nessuno giustifichi la sconfitta con l’assenza dei vertici nazionali, piuttosto ne approfittino per procacciarsi un nuovo modello.
Un modello di compostezza, umiltà, competenza ed appartenenza al popolo che si aspira a rappresentare.
Un modello di populismo differente: democratico, realista, in armonia con l’establishment.
Grazie ad un candidato che ha giocato partendo con due quindici di handicap, il vento a sfavore ed un arbitro tutt’altro che super partes.
Quel 31,5% è un po’ come esser giunti almeno al terzo set e per essere un campione di quartiere contro i detentori del titolo nazionale in fondo in fondo non è male.
Eppure…
Federico Ioannoni Fiore

XVII. Lontano da Wittenberg (finora).

La pericolosa superstitio latina includeva un orrore particolare e caratteristico derivato dal numero XVII (17, diciassette). I Latini, uomini dalla fervida immaginazione, costruivano un articolato anagramma con le lettere del medesimo numero: in XVII essi vedevano VIXI, corrispondente alla prima persona singolare del perfetto indicativo attivo del verbo vivo, vivis, vixi, victum, vivere, cioè io vissi (e quindi io sono morto).

La positività della rivoluzione cristiana e la radicalità del messaggio evangelico, con la mediazione della filosofia ellenica, valsero a scardinare buona parte della irrazionale superstitio pagana, checché ne dicano i razionalisti, vecchi o nuovi che siano. Qualche elemento di quella irrazionalità, però, è stato tramandato nei secoli e pertanto rimane, come gramigna tenacissima, nelle menti degli omuncoli dalla cervice più dura. Quel qualcosa include anche le dicerie e i pregiudizi circa il numero diciassette.

Il numero 17 si ritrova in una data significativa, che è quella del 31 ottobre 1517. Oggi, che è sì il 31 ottobre, ma del 2016, si commemora il 499° anniversario dell’affissione delle celeberrime 95 Tesi sul portale della Cattedrale di Wittenberg, in Germania, da parte del monaco agostiniano Martin Lutero, al principio della Riforma Protestante (cioè del posizionamento politico, militare e strategico in genere, prima che mistico, spirituale e religioso, di quei prìncipi che protestarono contro l’imperatore cattolico). Proprio oggi, per la prima volta nella storia, un Pontefice Romano ricorda l’evento in questione in terra luterana.

Finora, in ambito cattolico, si è detto che quella di Lutero fu apostasia.

“Ti prego, Amleto, non tornare a Wittenberg”.

Queste sono le note parole che la madre di Amleto rivolge al figlio (Atto I, scena 2), per invitarlo a non fare ritorno nella sede universitaria di Wittenberg, fucina di quella filosofia sofistica capace di rendere Amleto un uomo assalito dal rovello del dubbio. Il criptocattolico William SHAKESPEARE scelse di citare Wittenberg in tal modo per riferirsi surrettiziamente al rinnegamento luterano.

Lutero, scambiato per padre della modernità, altro non fu che un monaco medievalissimo.

Insomma, l’ecumenismo procede, ma chissà a quale prezzo.

Federico GARGANO

 

Serate gratis in discoteca. L’ultimo “schiaffo” alle donne.

Ok, lo ammetto. Non sono un assiduo frequentatore delle serate che animano la giovane vita mondana. Di conseguenza, probabilmente non sono la persona più adatta a trattare di argomenti come questo. Eppure, credo sia importante condividere con voi una breve riflessione.

Di recente sono venuto a conoscenza di una pratica che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta: in alcune serate in discoteca le femmine non pagano. Parlo di femmine e non di donne. E lo faccio volutamente. Il termine deriva dal latino “femina” e non da “domina”, da cui deriva invece il vocabolo italiano donna. Infatti, dietro quella che potrebbe apparire come una semplice e ininfluente sfumatura di significato, si nasconde in realtà una differenza sostanziale. “Femmina” è un attributo che riconosce solamente uno status biologico: femmina è colei che produce i gameti sessuali femminili e che è capace di ospitare la nuova vita; il termine “donna”, invece, descrive il riconoscimento di un nobilitante ruolo sociale: figlia, compagna, sposa, madre, guida. Ecco, le frequentatrici di questi locali non pagano per il fatto di essere femmine, ovvero, di essere di sesso femminile. E in quanto tali esse attirano il pubblico maschile, pagante e sornione.

Ovviamente questa pratica non è altro che un’abilissima strategia di marketing. Ma cosa si nasconde dietro questo fenomeno, ignorato da molti?

Forse nulla. Eppure ho voluto scorgerci, magari per errore, qualcosa di più grande: una vera e propria piaga sociale ai limiti del sessismo. Dopotutto i maschi pagano per la presenza delle femmine. Da un punto di vista concettuale chi paga e chi non paga non può mai essere equiparato. Quindi ci troviamo di fronte a dei clienti e a dei veri e propri prodotti. E come ogni bene di scambio questi prodotti hanno un prezzo. Che il maschio paga. E questo è inaccettabile.

Qualche ingenuo perbenista dirà che è un giusto privilegio, una questione di rispetto, un’attenzione particolare riservata alla clientela femminile, un’affidabile indicatore di civiltà.

A mio modo di vedere, la realtà è diversa. Le donne sono considerate nel peggiore dei modi possibili: come inermi esche per noi uomini, che siamo tristi e sommesse comparse del grottesco spettacolo. In altre parole, forse più efficaci in una società dove la forma è tutto, esse sono considerate alla stregua di vermi, attaccate ad un amo e somma brama degli stupidi pesci.

Domine, aprite gli occhi! Non siete solo femine.

Aldo Navarra


Photo: altarimini.it

 

 

Prece settembrina – Contro la moda, al di sopra della media e senza la mediana.

Dopo la preghiera, laica e religiosa al contempo, pronunciata dall’autore al principio del corrente anno solare, in questo mese di settembre, passati i bagordi ferragostani ed estivi tout court, è tempo di avere un occhio di riguardo per l’attualità, con lo scopo di trarre qualche ragno dal buco. Allo stato attuale, l’autore si sente di elaborare una nuova preghiera, una preghiera di settembre, una “prece settembrina”. A gennaio, il sottoscritto aveva intitolato la sua pubblicazione così: “Oltre ogni singolo bilancio ed ogni retorico auspicio”. Tale produzione fu dapprima pubblicata su “Rinascimento”, per poi essere ripresa e riadattata alle esigenze editoriali de “Il Caffè”, foglio scolastico del quale proprio il sottoscritto è stato caporedattore nel periodo compreso fra il settembre del 2015 e lo scorso giugno.

In fin dei conti, le esequie della retorica ed il battesimo del pragmatismo sono stati celebrati, non troppo solennemente, ma sono stati celebrati; infatti, l’esperienza di “Rinascimento” è evoluta in “Cave Canem”. La presente testata esiste per sturare le orecchie ed operare chirurgicamente gli occhi dei lettori, al fine di risolvere il problema costituito dalla cataratta (o cateratta) e ristabilire la cristallinità che rende il cristallino degno del suo nome. Chi vi collabora se la prende con il politicamente corretto a tutti i costi, che è assassino della Verità; chi vi collabora se la prende con l’analfabetismo funzionale; chi vi collabora se la prende con l’ignoranza e l’incoscienza patentate e sbandierate. Feriremo, con colpi ben assestati di fioretto, secondo la nostra vocazione, memori della nostra genesi.

Perché “contro la moda, al di sopra della media e senza la mediana”? Il riferimento è alle matematiche, alla matematica pura, alla matematica applicata, all’aritmetica, all’algebra, alla geometria piana, solida ed analitica, alla statistica. Ce ne serviremo per essere fedeli al criterio di Verità. La prece settembrina rinnova quella gennarina e la supera. La moda, intesa quale valore che compare più frequentemente, in quanto tale, non interessa, anzi, interessa come elemento da battere; al di sopra della media, perché un singolo valore che esprima sinteticamente un insieme di dati non basta, soprattutto se la media medesima è ponderata; figurarsi se c’è bisogno della mediana, cioè di qualcosa che si trovi nel mezzo della distribuzione…

E allora? Ebbene, questo editoriale per Cave Canem sostiene le seguenti cose. In primo luogo, l’autore rispolvera un buon articolo che Andrea SCANZI ha scritto dopo Ferragosto, dall’eloquente titolo “L’estate dei turisti supercafoni (l’umanità è senza speranza?)”, sulla tristezza del genere umano (tarantolati, tamarri, tarantolati tamarri, tamarri tarantolati, apocalittici, integrati, selvaggi ecc.). Il nostro Scanzi ha molte ragioni, ma ha dimenticato un particolare, cioè la causa di tutto quanto, che è squisitamente politica ed è la seguente: la democratizzazione totale, ovvero il tripudio quintessenziale dell’oclocrazia. Leggere il D’Annunzio de “Le Vergini delle rocce” per provare a capire qualcosa.

I fatti romani di questo ultimo anno inducono a pensare ed a proclamare “O tempora, o mores!”, senz’altro. Da MARINO dott. prof. Ignazio a RAGGI avv. (avvocata, avvocatessa o avvocato, chissà come si dica e/o come si voglia far chiamare l’interessata…), due “consules sine collega”, poco è cambiato ed il disastro ha conosciuto nuove prospettive evolutive. In tempi di magra e di confusione, nella Roma che funzionava, si richiedeva la consulenza di un “dictator”, che serviva a qualcosa. Nel disordine, la democrazia diventa funesta, degenera in oclocrazia e bisogna rifuggirla. Eccoci a noi, sodali. Omnes viae Romam ducunt. Se la democrazia non funziona, a Roma e ovunque sia, la si sospenda, la si rimandi, la si riesamini e, qualora necessario, la si bocci. Roma sarà salva con la legge marziale. O con il governo del papa-re. In un’altra epoca si disse: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”. Oggi si dica: “Dum Sagunti consilutur, Roma expugnatur”. La Roma pontificia prosperò. La Roma odierna è una soluzione sovrassatura da storicizzare: il solvente ha più soluto della massima quantità che possa contenere alle condizioni di equilibrio termodinamico. Il D’Annunzio de “Le Vergini delle Rocce” lo aveva previsto. Ahinoi, Claudio CANTELMO, abruzzese come noi, ahinoi! Suvvia, non si disperi! Si getti via tutto e si preparino nuovo solvente e nuovi elementi da solubilizzare!

Del resto, questo accade perché la democrazia è molto fallibile. Perché la democrazia riesca, il popolo sovrano deve essere capace di essere sovrano; il popolo deve essere re; il popolo deve saper essere re; il popolo deve saper fare il re; ogni elemento del popolo, purché maturo, deve essere abile a fare il re. Se questo non accade, eccoci all’oclocrazia, allo spauracchio della massa informe e malforme che ricava legna da ardere segando il trono; eccoci alla negazione della democrazia; eccoci alla realtà odierna.

Si reciti la prece settembrina per chiedere che la massa diventi popolo, e che il popolo diventi atto ad essere re. Se questa cosa è utopica, ragion per cui irrealizzabile, che la prece settembrina sia esaudita con la restaurazione della regalità vera, che è una cosa seria. Venga pure un despota illuminato. Torni una monarchia che sia tale ed assoluta. E se ci sarà il re, il re faccia il re. A questo proposito, si citi il Pirandello de “Il fu Mattia Pascal”, con il brano seguente, per concludere la preghiera:

“Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. (…) Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano a uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma, quando i molti governano, pensano soltanto a contentare sé stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh, perché credi che io soffra? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà…”.

Federico GARGANO

Un’idea, un pensiero…un “Ghiribizzo”!

Cari lettori,

approfitto di questo primo editoriale per porgervi un caloroso benvenuto nel nostro nuovo progetto e per augurarvi una buona lettura.

Come primo intervento su CAVE CANEM vorrei presentare la nuova rubrica dal titolo alquanto singolare: “Ghiribizzo”.

Durante la formazione scolastica, ed in particolar modo negli studi classici, ci si può imbattere in termini talvolta insoliti ma al contempo estremamene stimolanti.

É stato nel corso dello studio della letteratura italiana che ho avuto la fortuna di udire per la prima volta “ghiribizzo”.

Nel suo “Principe”, Niccolò Machiavelli affermava: “se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo questo non vi dovrebbe dispiacere”.

Nonostante sia oggi in disuso, la nuova parola ha colpito immediatamente la mia curiosità ed è ormai entrata a far parte del mio “sermo cotidianus”.

Dietro un’apparenza aspra e quasi cacofonica, si nasconde un vocabolo di indubbia utilità e dalle sorprendenti capacità espressive.

Sarà capitato anche a voi di avere un’idea improvvisa, un pensiero sfuggente, un’intuizione inspiegabile, un desiderio bizzarro.

Bene, avete avuto un ghiribizzo.

Nella maggior parte dei casi non rincorriamo a lungo questa fugace impressione, presi dalle mille frenesie delle nostre attività. Ma in altri casi ci sorprendiamo nel prendere un appunto, nel disegnare uno schizzo, nel parlarne ad un amico.

Lo facciamo in un modo distratto, senza particolare attenzione. Ma questo avviene solo in apparenza.

In alcuni casi il ghiribizzo può diventare opinione, l’opinione giudizio, il giudizio idea. In ogni caso, esso rappresenta un arricchimento per ciascuno di noi: sia per colui che è colpito dal raptus dell’innocente pensiero, sia per colui che lo ascolta e ne fa tesoro.

A mio modo di vedere, il ghiribizzo costituisce lo statuto più semplice e primitivo di ogni pensiero umano e ciononostante ne rappresenta l’espressione più nobile e feconda.

Ho deciso di assecondare alcuni dei miei ghiribizzi, di seguirli e vedere poi dove mi condurranno.

Perdonate se ve ne farò partecipi.

A presto!


Aldo Navarra                                                                                                                                  05/09/2016

 

“Biographia Literaria”

“L’editoriale del lunedì” – Inaugurazione di una prassi produttiva

Si presenta, con questo scritto, una nuova consuetudine compositiva, quella dell’editoriale del primo giorno della settimana lavorativa. La parola a Federico GARGANO.

Esimi lettori, è bene che ci si presenti. È necessario che chi vi scrive colga questa occasione per articolare il proprio autoritratto sincero, autoironico e metaforico. Il primo riferimento va, doverosamente, all’autobiografia discorsiva di Samuel Taylor COLERIDGE, poeta della prima generazione romantica inglese: “Biographia Literaria” è il titolo di questo testo, che vuole tratteggiare, brevemente, il ruolo umano, sociale e storico del sottoscritto. Questa è un’autobiografia sintetica, intenzionalmente distante da ogni autoincensamento, ma saldamente fondata sulla “consapevolezza-di-sé”, quale concetto filosofico e psicologico.

Come atto di fedeltà all'”auctoritas” letteraria, si è scelto di citare le parole meditate e scritte da Giovanni VERGA per comporre la prima descrizione, quantomai incisiva, di una delle sue creature, don Gesualdo Motta. In tale ritratto, l’autore di questo primo editoriale ha intuito di rispecchiarsi: “Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. – Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! – trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolio dei ragazzi – le liti fra tutti loro, quando gli affari non andavano bene. – Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. – Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto “vi saluto”; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore…”.

“Vivere militare est” disse Seneca; il sottoscritto interpreta la propria vita come un servizio militare permanente, prestato in una guerra all’ipocrisia che è campale e  diplomatica al contempo, e se ne compiace.