Il ritratto di Gertrude

Tradizionalmente la monaca di Monza, raccontata nei Promessi Sposi, è rimasta nell’immaginario collettivo una donna poco devota e da una condotta morale non proprio cristallina. É ispirata alla figura storica di Suor Virginia Maria, al secolo Mariana de Leyva y Marino. A destare scalpore fu la sua relazione con Gian Paolo Osio e l’assassinio di tre persone da parte di quest’ultimo per nascondere la tresca amorosa. Al termine di un processo canonico, la donna fu poi condannata ad essere “murata viva” nel ritiro di Santa Valeria dove trascorse 21 anni in una celletta di appena quattro metri quadri. Questa cupa vicenda di violenza, di passione e morte non ha potuto non affascinare l’autore dei Promessi Sposi, a cui dedica due capitoli all’interno della stessa opera. Manzoni riprende in primis il motivo illuministico, gotico e romantico della monacazione coatta, ma a differenza di altri scrittori di quel tema è in grado di contemperare armoniosamente la denuncia sociale alla dimensione intima del personaggio. L’analisi di un’anima è per Manzoni il risultato di rapporti sociali, politici e culturali. Il dramma di Gertrude infatti si consuma sullo sfondo della gretta nobiltà seicentesca, malata dal formalismo, dalla teatralità e dall’ipocrisia dei rapporti umani.

Nella versione manzoniana essa appare viva, vitalissima e desiderosa di poter disporre di sé per sfuggire all’orribile destino di una vita claustrale. Così le immagini di nozze, di pranzi, di festini provocavano in lei il “brulichio che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare”. Ciononostante appare già fatalmente segnata. Nella sua giovinezza ci sono già le tracce del disfacimento fisico e morale, della sazietà insoddisfatta, di un isolamento perpetuo. “Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.” È dunque una vittima, una donna condannata fin dalla nascita ad indossare il velo monastico.“La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita”.

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È succube del padre aristocratico, della sua pedagogia e psicologia applicata in senso negativo e distruttivo. Manzoni si scaglia violentemente contro tale figura, simbolo di una cultura gesuitica estremamente formalistica, contraria alla sostanza dei precetti morali e religiosi. L’educazione del principe-padre fiacca la volontà di Gertrude, così da introiettare in lei il senso di colpa che la indurrà alla terribile scelta. L’autoritarismo paterno si esplica più per via subliminale, per forza di suggestioni più che per persuasione diretta. Infatti non dirà mai alla figlia “devi farti monaca”. Ma sfrutta abilmente ogni suo minimo errore per convertirlo in un passo ulteriore verso la monacazione. Da perfetto regista il padre ha tutto sotto controllo e trasforma la figlia in una marionetta pronta ad obbedire ai suoi comandi sia verbali sia mimici.“Gli occhi del padre governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili”. La sventurata è perciò doppiamente condannata non solo perché direttamente oppressa, ma anche perché costretta a far propria la logica dell’oppressore. È come se il padre si fosse impossessato della sua volontà dirigendola, ora contro sé stessa nella forma del senso di colpa e del bisogno masochistico di espiazione, ora contro gli altri nella forma della superbia altezzosa e dell’ostentazione di una superiorità di casta.

Fin dalla primissima e straordinaria descrizione della monaca di Monza, il lettore ne apprende anticipatamente la contrastante personalità per mezzo dell’aspetto esteriore. La consapevolezza del peccato ha logorato la sua bellezza fisica e l’ha fatta sfiorire. I contrasti violenti tra “il bianco della benda di lino”, e “il nero dei capelli” ed “il roseo sbiadito delle labbra” accentuano la complessità della figura. E poi i “due occhi, neri neri,” “vivi, pieni d’espressione e di mistero”, ora gravidi di “affetto, corrispondenza, pietà”, ora invece carichi di un “odio inveterato e compresso” rivelano un’anima inquieta, in preda ad una sofferenza segreta.
È in fondo il dramma di un’anima incapace di scegliere e desiderare liberamente, di una donna che ha abbandonato ogni speranza “come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca”.

Di Paolo Garrubba

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